Sono solo buchi
È una domanda ricorrente: perché quei buchi nella facciata della clinica, cosa significano?
La risposta è banale: servono a rompere la monotoni del muro, ad esplorare il mondo dentro.
Ma non è tutto.
Non mi piace filosofeggiare sui progetti, se l’architettura non parla da sola è inutile parlarne.
In quei buchi qualcuno forse vi vedrà le rotondità generose di madri che stanno per generare futuro o vi vedrà volti che si affacciano sullo spettacolo della vita o che semplicemente occhieggiano curiosi all’interno della casa. Forse qualcuno vi vedrà galassie di storie che danzano intorno a questa avventura o più semplicemente un gioco per bambini. Qualche antropologo potrebbe vederci la traccia del sistema insediativo delle capanne del nord.
Chi sa? Ma questo è il senso profondo del simbolo, la sua generosità, la capacità di mettere in risonanza le corde più profonde del nostro inconscio.
Il simbolo è una figura della mente: fugace, indescrivibile, in continua mutazione ma non per questo capace di essere profondamente radicato nell’esistenza umana, anche negli angoli più remoti.
Forse in quella facciata qualcuno vi vedrà semplicemente dei buchi o non ci vedrà proprio nulla, troppo indaffarato per farsi domande.
Chi lo sa, dobbiamo solo aspettare per vedere se l’architettura avrà la forza di parlare autonomamente. Intanto, come ci bisbiglia ad un orecchio il saggio Ogotemméli (una sorta di Omero africano):
«(…)La disposizione degli oggetti serve per nascondere il simbolismo a coloro che vorrebbero comprenderlo»
(M. Griaule, Dio dell’acqua, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, pg142)
Raul Pantaleo